Patria

Si parla così poco rispetto al tempo che si pensa. Uno passa a volte intere giornate senza dire una sola parola. Si guarda l’orizzonte, si sfoglia un album di fotografie, si passeggia sfiorando i muri immersi in un profondo monologo interiore e il diario di questo paziente macinare immagini e sensazioni, ricordi e fantasie, si esprime attraverso un linguaggio tanto evanescente da parer quasi intraducibile.

A questo linguaggio facciamo riferimento in questo spettacolo dando voce alle riflessioni di un soldato lasciato a guardia di una bandiera e di un prigioniero, in una sperduta postazione in prima linea. Il soldato è donna e clown allo stesso tempo, custode e prigioniero di una storia che racconta guardando direttamente negli occhi di uno spettatore privilegiato. “PATRIA” infatti segue una linea tracciata da precedenti lavori teatrali tutti immaginati per “uno spettatore solo”. Si tratta di una forma teatrale che sto indagando cercando di affermare una peculiarità che distingue la nostra arte dalle altre e che si esprime nella possibilità che ci è data di accarezzare il nostro interlocutore. Fra un colpo di obice e il cielo che si fa sempre più plumbeo i due hanno occasione di scambiarsi qualche riflessione, qualche brandello di ricordo. Attorno a loro un campo di battaglia completamente devastato, morti quasi vivi e vivi quasi morti a cui prender in prestito le scarpe. Il clown lotta, oltre che con il destino e con la fatica, con gli oggetti che lo circondano, che un poco lo assediano.

Tra il materiale che abbiamo potuto usare per raccontare questa storia anche le registrazioni di quando Maria era bambina. Sono i suoni dei suoi ricordi: la voce della sorella, i passi sulle scale della casa dei nonni, il coro dove cantava il fratello, il clima captato da un microfono lasciato acceso durante il giorno di Pasqua. Questi suoni raccontano della patria che ognuno porta dentro se stesso, una patria che va ben al di là delle bandiere e dei confini ma che ci rimanda ad un semplice desiderio di casa, di ritorno, di radici. Un progetto costruito a tre mani con Maria e Dolores nel quale raccontiamo attraverso gli occhi di un clown del delirio della guerra e dell’ingenuo desiderio di far ritorno da qualche parte quando anche l’ultimo cecchino avrà smesso di sparare.

Daniele Finzi Pasca, 1996

testo e regia: Daniele Finzi Pasca
con: Maria Bonzanigo
assistenza alla regia: Dolores Heredia
luci: Marco Finzi Pasca
musiche: Maria Bonzanigo
creazioni sceniche: Arkimede
suono e missaggio: Gregorio Cosentino
produzione: Teatro SUNIL

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